Dubai, l’undicesimo livello di Blade Runner
Dove si nasconde l’anima di questa Las Vegas orientale? Forse da nessuna parte…
Già solo perché è l’unica città progettata nell’ultimo secolo, e, volenti o nolenti, anteprima del futuro urbano che ci aspetta, Dubai vale una visita. Eretta dal nulla da un volere unico, moderna Versailles per la corte del petrolio che si prende la rivincita sul capitalismo occidentale, sfidandolo sul suo stesso terreno, nel Guinness della megalomania che si ammanta di trash, Dubai è un sincretismo di pezzi e vizi dell’occidente mashati a capricci mediorientali, tranci di paesaggi urbani euro-americani copiati e incollati in una faraonica scenografia hollywoodiana calata nel deserto arabo. Per raccontarla, devi attingere a un patrimonio di immaginari sparsi per il pianeta: la diresti una Las Vegas d’Oriente, sfogo vacanziero di pullman allupati di azzardi e ricettacolo ormai démodé di vecchi avventurieri, ricconi falliti, pusher ripuliti, escort in pelliccia, lavatrici di mafie e holding finanziarie.
Ma Dubai è un Paese musulmano, nemico giurato dello sfrenato liberismo infedele. Cosicché, quando nei giganteschi mall, cattedrali del dio consumo ridondanti di vetrine del più acclamato sfarzo planetario che s’aprono come una matrioska in risto-villaggetti finto oriente e canali retroveneziani, piste di ghiaccio nel deserto, acquari di squali flashati, ai piedi del più fantasmagorico fallo di acciaio e vetro a trecento piani parte il muezzin in filodiffusione che interrompe la colonna sonora della fontana scenografica dieci volte piazza Navona, avverti un certo disorientamento: sei nella giostra del mash-up globale.
Chi abita Dubai.
I local, nati lì, con la tunica candida e la tovaglia da picnic in testa, vagano svogliati nella climatizzazione profumata con il pacchetto regalo del peccaminoso pizzo per una delle mogli che gli tacchettano dietro ammantate da madonne del venerdi santo. Dopo la spesa rientrano nei compound riservati, isole verdi nell’arido deserto con villa, piscina, campi da golf e porticati fioriti: a guardarli dal grattacielo, nient’altro che tante Milano 2 vaste tutta Segrate, col mare in fondo e tanto, troppo sole.
Più su dei local, nella piramide gerarchica che ne misura la prossimità all’Emiro, la corte, che predilige palazzi condizionati con parchi grandi come Villa Borghese, ma popolati di specie animali e vegetali di ogni clima, pini e tigri bianche comprese. Quanto si intravede dal cancello d’oro e finto ferro è un roteare di portali michelangioleschi preformati nel cemento, porticati di colonne corinzie stampate in 3D su coni vetrati a profili dorati, il tutto in scala smodata.
Ma sono solo rare sconnessioni dello skyline emiratino, unici appigli di orientamento in una metropoli avara di segni che possano assurgere a valore, a simulacro di identità urbana; come nelle nostre città un palazzo nobiliare, una fontana, un porticato, una piazzetta. Il più è un affastellarsi composito di uffici e alberghi, dentro parallelepipedi a cellette raramente illuminate, simile a tutte le downtown delle metropoli del globo. Solo che qui, per distinguersi, i grattacieli assumono vezzi e decorazioni più fantasiose, a punta, in diagonale, a intermittenza, al confronto sbiadisce anche il nostro più sfrenato postmoderno anni 80.
Gli occidentali immigrati qui alla ricerca di un lusso d’altri tempi, sopportati dalla gerarchia locale come semplici azionisti della fiction, sono cordialmente recintati nelle free zone e nei compound a loro destinati.
Costretti, se vogliono restare in questo paradiso, a garantirsi il benessere e coltivare i figli nelle superaccessoriate scuole internazionali modello Saranno Famosi, nido di coccole per le generazioni X Factor di domani, tre lingue, cinque sport, otto livelli, tecnologie tutte.
Per i loro genitori europei, già annoiati dalla città-fiction, il Grande Fratello Orientale sta erigendo la Dubai 2020, centri culturali fatti dalle archistar, art district ed eventi alla Fuorisalone, scontando però ogni spritz proibito ma venduto con un conto pari allo stipendio di un indianino. Già, perché ci sono anche gli indianini, pakistani, afgani, africani che siano, sfigati del pianeta che, a differenza che in Europa, qui sono accolti a braccia aperte, per sorreggere dalla base la piramide sociale a vertice unico che governa l’Ambaradan. A poco più che vitto e alloggio, in rigorosa divisa da modelli del brico, ripuliscono a qualsiasi ora e temperatura gli avanzi dei vizi local e occidentali, perfino i portacenere per strada; mettono il letame in ogni chilometro di aiuoletta fiorita, nettano la sabbia dal vento del deserto, passano la cera, tolgono la cera. Oppure aggiustano le cose nel ghetto in cui sono relegati, il retrobottega urbano celato ai turisti come rovescio della città sfavillante a pochi chilometri. Palazzine international style a tre piani, parabole, motori di split e panni stesi allo smog, sotto cui si ammonticchiano riparatori, manutentori, rifornitori e vendilaqualunque, meta da tempo libero dell’elite privilegiata in cerca di un ricambio, caricabatteria, bottone d’oro o solo una cazzo di vite a brucola 13.
La città, diceva Calvino, intellettuale di una nicchia ormai in declino, non rivela la sua vera anima, la nasconde nelle pietre, dietro le finestre, nei vicoli, sotto i tombini, nella spazzatura. Dubai, al contrario, è il futuro che non rivela alcuna anima: pozzo che teme il suo fondo, più che una città invisibile è un Truman Show che ribolle al sole cocente, un Matrix dal software crackato, la Gattaca dell’elite perfetta che nasconde le impurità nell’undicesimo livello di Blade Runner, con il suo inumano rovescio.
E’ un’esperienza a scopo e a tempo, metafora della società fluida, schizzata e incoerente in cui è nata, che non lascia tracce: galleggia sulla sabbia come un’oasi nel miraggio, destinato a durare il tempo di un rialzo di Borsa, fino alla prossima debacle. Come quella del 2008, quando, alle prime avvisaglie di crollo, investitori e investiti falliti di ogni dove scapparono nottetempo via dai creditori raggirati, lasciando nel parcheggio dell’aeroporto le porsche-audi-mercedes con le chiavi ancora nel cruscotto.
Pubblicato sul blog DOWNTOWN di Antonio Pizzola il 23.01.2019 su Cielo Terra Design