Il rapporto con la Memoria

Comunemente chiamato Tempio di Minerva Medica, il rudere vicino la Stazione Termini era in realtà un ninfeo degli Horti Liciniani datato III sec d.C, la terza cupola più grande dell’Antica Roma dopo il Pantheon e le Terme di Caracalla, modello di ispirazione per le architetture a venire, da S. Sofia a Istanbul alle cupole barocche di tutta Europa.

I binari dei treni delle Ferrovie Laziali gli girano attorno, deviando il percorso come se incontrassero un ostacolo d’inciampo: erbacce, lamiere arrugginite e cartelli non oltrepassare segnano il paesaggio, restituendo dell’antico capolavoro l’immagine di un rudere di nessuno prossimo alla rovina. Ipotizzare un intervento architettonico – non più solo per fermarne temporaneamente il degrado con un restauro conservativo (che nessuno farà mai per carenza di risorse), ma per immaginarne una nuova vita, un recupero per un riuso che risponda ai bisogni della città – è considerato blasfemia.

Incontrerebbe la riprovazione del sentire comune e l’ostracismo di ogni categoria del pensiero. Ce lo teniamo così, segno di una consunzione che eleviamo a feticcio per una civiltà incapace di reinventarsi e di trattare la Memoria come materia per immaginare una sua qualsiasi evoluzione.

 

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IL RAPPORTO CON LA MEMORIA STORICA

Contrariamente a quanto la retorica diffusa propugna, manteniamo con la nostra Memoria storica un rapporto contraddittorio, a tratti schizofrenico.

Da un canto eleggiamo ogni relitto, muretto interrato o trancio di fregio, a opera d’arte, attribuendogli autorevolezza solo in ragione della sua vetustà, senza che possa – cosi decontestualizzato- raccontarci nulla del suo reale valore storico e artistico,  totem di una religione di facciata che si alimenta della nostalgia di un passato idealizzato;

Contestualmente abbandoniamo all’incuria, in evidente contrasto con le più ortodosse declaratorie di salvaguardia, le tracce più meritorie di attenzione, perfino quelle elevate a monumento, incapaci di immaginarne occasioni di valorizzazione, o almeno di senso nello scenario urbano e nell’immaginario collettivo.

 

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LA PERDITA DEL SENSO

Il boom economico del secondo dopoguerra ha messo l’automobile al centro della vita sociale, modellando progressivamente la città per essere vissuta in velocità dietro un finestrino. Disconoscendo gli scorci, gli allineamenti e le visuali della fruizione a passo d’uomo, la cultura del “progresso” ha aperto squarci nelle mura antiche, preteso asfalti e “slarghi” (non più piazze), vuoti di risulta senza identità attorno ai monumenti più rappresentativi.

Trasformando in non-luoghi gli scorci più emozionanti della città antica.

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Il Colosseo, la Piramide, Porta Maggiore, il Circo Massimo, i tempietti sul Tevere, sono solo gli esempi solo più eclatanti di illustri arredi di rotatorie stradali, decontestualizzati dal tessuto di sovrapposizioni storiche da cui emergono, per trasformarsi in escrescenze murarie nella giostra di veicoli del traffico capitolino.

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I segni della memoria collettiva hanno perso così la funzione di narrazione della storia che li ha eretti, né di emergenze monumentali che denotavano l’Urbe antica: il Colosseo non ci dice più niente della magnificenza e della meraviglia che suscitava, Caracalla non ci racconta nulla delle genti che la frequentavano, il Circo Massimo è solo un invaso brullo in un anello automobilistico, Vesta, la porta di Giano, il Teatro Marcello sono episodi neri di smog in un chiasso di lamiere, clackson e parcheggiatori abusivi.

I pilastri della nostra identità culturale restano a rappresentare solo il degrado che li ha rovinati, fotografati in un fermo immagine di consunzione che più che rievocare la civiltà che li ha eretti rimanda alla sua decadenza.

Abbiamo cosi formato del nostro passato una visione nostalgica per un verso e indifferente dall’altro: ci affascinano i guasti del Tempo che è passato rovinandone i fasti e, contestualmente, aborriamo qualsiasi tentativo, fosse anche solo immaginario, di recuperarne un ruolo, preferendo -nei casi migliori- congelarne ancora per qualche tempo l’eutanasia con interventi di costoso ed effimero maquillage.

E’ un atteggiamento di derivazione tardoromantica, del secolo delle magnifiche sorti e progressive che esaltò il paesaggismo pittoresco, l’elegia del ricordo, la passione per il disfacimento, il manierismo nel culto della consunzione e dei cimiteri.

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Le vedute tardo settecentesche utopiche di Piranesi influenzarono in maniera determinante l’approccio alle rovine; ma più che coglierne la forza ideale più innovativa e gli effetti illuministici più prorompenti, abbiamo attinto alle sue opere limitandoci alla superficie, traendone il gusto per il vernacolare, l’idealizzazione del misero, dell’agreste e l’accondiscendenza per il degrado. Tutto questo in una città che, nel contempo, si apprestava ad evolversi in metropoli, sotto la spinta delle utopie economiche e sociali degli anni a venire.

Fu in quel clima culturale che Stern (1806) e Valadier (1823), nei restauri del Colosseo che fecero storia e divennero modello delle teorie conservative ancor oggi più di tendenza, immortalarono sulle arcate in rovina i guasti del tempo, fissandoli e tramandandoceli nell’attimo del crollo imminente.

Dal punto di vista culturale fu un passaggio iniziatico: dalle prime esperienze di restauro conservativo nacquero le teorie della nuova disciplina, evolutesi nel tempo fino a cristallizzare nella prassi consolidata il mito della “patina”: quella velatura di malattia che i guasti del Tempo avevano prodotto e che deve emergere nel restauro perché l’opera non sembri troppo “moderna”, astratta ed aliena nella sua confezione, almeno finchè il Tempo non la naturalizzi, riuniformandola nel degrado alla materia sottostante.

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Così, chiuse le parentesi delle utopie futuriste del secolo del Modernismo, già nell’ultimo ventennio del 900 siamo tornati ad appassionarci al deteriore, alle muffe, al tarlato, al pittoresco, al nido della zona confort in cui vagheggiare il ricordo del vecchio prima che antico.

Perfino i capannoni abbandonati dalla crisi industriale sono diventati cool invece che materiale da discarica; le catapecchie impregnate di umido delle ex borgate immobili ambiti, perfino i quartieri-fallimenti degli anni 70, Corviale o Gomorra, assurgono a scenografia di fiction di successo, restituendo al degrado un valore estetico ed etico improprio, capitalizzato dalle gentrificazioni che il mercato ha preteso: tutto quanto è stato è reperto archeologico, a cui tributare un valore intrinseco, per la sola ragione che c’era già.

Ma è un valore distopico più che utopico, perchè esalta il rovescio delle teorie positiviste che ce l’hanno tramandati, di cui immortalare i guasti e il decadimento.

 

 

Restano come pregevoli eccezioni capolavori di maestri di architettura (come Carlo Scarpa, in foto il restauro del Castelvecchio di Verona, 1956) che ci hanno insegnato come sia possibile reinterpretare l’antico con innesti contemporanei, rispettosi dell’identità stessa della preesistenza, alla quale si accostavano non già cercando di imitarne le patine e gli ornamenti, quanto valorizzandone i caratteri spaziali più interessanti, con una progettazione fortemente “site specific”, basata su quello che i teorici delle architetture urbane definirono “genius loci” (Aldo Rossi, L’Architettura delle Città).

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Il Mito perde così progressivamente il valore universale, educativo e di riferimento che aveva avuto nella storia laddove, nell’esaltazione nostalgica del suo tramonto, se ne esalta esclusivamente il ruolo di preesistenza.

Manufatti e loro residui diventavano paradossalmente tabù intoccabili, nulla poteva accostarcisi per la presunzione intellettualistica– diventata certezza nell’immaginario – che qualunque iniziativa su di essi avrebbe snaturato il contesto, mortificando o distruggendo il feticcio in disfacimento che deve restare moribondo al capezzale.

Antonio Pizzola

[segue…]

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